Ben 2 documentari stanno caratterizzando le ultime giornate veneziane. Da una parte il nuovo lavoro del piacione Michael Moore Capitalism: a love story, che critica il sistema capitalistico statunitense, dall’altra Southland border di Oliver Stone, un ritratto inedito del presidente venezualano Chavez e del nuovo corso politico, economico e sociale dell’America Latina.
L’autore di Sicko, presente ieri sera in Sala Grande, ha puntato il suo obbiettivo sulle malefatte del capitalismo selvaggio, dei crack bancari, dei ricchi che non si accontentano della loro ricchezza e rubano ai poveri e su come questa situazione è stata alimentata dal’interno del paese. Uno sguardo feroce e al contempo fin troppo semplificato, ma lui dice che è voluto, così da riuscire a spiegare anche ai bambini di due anni cosa c’è che non va. Il gioco funziona, come sempre con Moore, ma sicuramente la visione è parziale e partigiana. Il film è in concorso: chissà se bisserà il successo di Fahrenheit 9/11 che vinse a Cannes.
Parziale e partigiano anche Oliver Stone. Il regista di Platoon, che non è nuovo nel cimentarsi col documentario, ha indagato sull’uomo e sulla storia del presidente venezuelano Chavez, persona non gradita dall’amministrazione Bush. Definito dittatore dai media Usa, Chavez in realtà è stato eletto democraticamente e da 13 anni sta portando avanti una vera rivoluzione economica e sociale nel paese, tanto da non avere più debito pubblico e aver ridotto sensibilmente la disoccupazione e la necessità di importare materie prime come il grano. O almeno questo è quello che traspare dalla lunga intervista a lui e agli altri “nuovi” presidenti sudamericani, tra cui lo splendido Evo Morales (Bolivia), il pragmatico Lula (Brasile) e la presidentessa argentina Kirchner. Un documentario interessante, divertente e coinvolgente, ma anche parziale e patigiano. O almeno così ci sembra, anche perché, se non fosse così, consigliamo vivamente di trasferirsi in Venezuela, dove c’è lavoro, crescita economica e i servizi funzionano.