In un articolo apparso sul Corriere della Sera si parla di un aspetto particolare del Festival di Cannes dove nell’edizione in corso sono visibili dei film molto ambiziosi ma senza certezze. I registi presenti, tra l’altro, rinunciano al dialogo con gli spettatori.
Quel che il Corsera spiega è che quest’ano gli addetti ai lavori si sono divisi moltissimo e viaggiano su posizioni anche parallele. Sembra quasi di essere allo stadio e per giudicare un film si va anche oltre lo spirito patriottico evidenziando una incomunicabilità generalizzata tra registi e spettatori. Scrive Paolo Mereghetti:
Non è questione di «colpi di scena» finali o di «risposte» arrivate solo in coda: è proprio un’idea di cinema che sembra negare qualsiasi voglia di comunicare con lo spettatore, che gli sottrae gli strumenti con cui dialogare col regista e con quello che ci racconta. Può essere una reazione all’eccesso di linearità e di complicità che insegue il cinema mainstream (dominato da remake dove lo spettatore deve solo compiacersi di ritrovare quello che si aspetta) e che in certi autori rischia di scadere in un’eccessiva semplificazione — qui a Cannes I, Daniel Blake di Loach ne era un esempio evidente — ma questo non toglie che un cinema troppo autoreferenziale possa scadere nell’autismo. E che un festival che si vuole vetrina dell’esistente finisca per diventare una passerella del nominalismo cinefilo. E dei suoi fan, pronti ad applaudire un film non per le sue qualità ma perché porta la firma di questo o quel (venerato) autore, da applaudire o detestare in ogni caso. Certo, una controprova è impossibile (bisognerebbe proiettare i film senza titoli e nomi dei registi…) ma non sarà un caso se ogni anno, a Cannes, si sente dire che i film migliori non sono quelli in concorso ma gli «altri», quelli che sono finiti nelle sezioni collaterali perché più tradizionali e comunicativi…