L’unica strada percorribile è quella della condivisione. Yvan decide di condividere con il suo occasionale ladro d’appartamento un momento importante della sua vita. Scopertolo in casa a cercare delle monete, come ogni bravo tossico, o ex tossico, come si definisce Elie, decide di non denunciarlo, decide di capire, fino in fondo, cosa lo abbia spinto ad introdursi in casa sua per rubare e perché in quello sguardo, tra lo smarrito e lo svaporato, cerchi un pò di se stesso, una conferma o forse un perdono. Certo la coppia riprende uno schema già fin troppo abusato nella storia dei road movie, il bello e il brutto, il buono e il cattivo, l’inseguitore e il seguito, il magro e il grasso. E se qualche volta si perde il controllo delle proprie azioni, se nella vita dell’altro ci si perde, questa volta no, il finale non è così scontato e previsto.
Una chevrolet che ci porti lontano
Yvan, interpretato dallo stesso regista Bouli Lanners, commercia in auto d’epoca che compra in America, le rimette a nuovo e le vende ai collezionisti belgi. E’ un uomo ingombrante, goffo nel suo quintale e passa e nei suoi pantaloncini corti ma è comprensivo e insospettabilmente sensibile. Rientra a casa una sera, dopo uno dei suoi giri d’affari, e si accorge della presenza di estranei sotto il suo letto. Chiunque di noi avrebbe chiamato la polizia o, prima ancora, avrebbe lasciato la casa a gambe lavate. Ma lui si fa guidare dalle sue sensazioni e forse già sa che questa presenza lo aiuterà a rappacificarsi con il suo passato. E’ subito chiaro, fin dalle prime immagini, che c’è molto Belgio sparso ovunque: le strade, le cittadine dalle piccole case con giardino, i boschi, improvvisi e cangianti e le nuvole. Il Belgio non è una scusa, non è il solito grigiore, i fumi delle acciaierie, la pioggia e il vento sempre e ovunque, ma è il Belgio del verde, dell’azzurro, del bianco delle sue nuvole di magrittiana inconsistenza, tante, basse, testimoni silenti di questa storia di immagini riflesse e esistenze da riannodare. Yvan lo riporterà nella sua casa paterna dove lo aspetta una madre comprensiva e rassegnata e un padre collerico che ancora non gli ha perdonato di non essere come lui. Le vicissitudini di Elie invece lo aiuteranno a ricordare cosa ha perso, cosa è importante, cosa è in grado di costruire, in un flusso di scambio purtroppo univoco. E mentre verso la fine del loro viaggio tutti si aspettano che ciò che hanno riconquistato insieme sia condizione necessaria per un nuovo confortante rapporto, Elie mostrerà la sua fragile condizione e lo abbandonerà e il nostro, non più inconsapevole e refrattario, sarà finalmente pronto per un altro Elie o chissà, per un altro amore.
Nudi alla meta
Non è solo un paese di tristezza e di occasioni perse non è un film di lacrime e intensa emotività. Si ride. Per il rapporto alcune volte ambiguo dei due protagonisti, per lo sguardo addormentato di Elie, per il suo sarcasmo involontario, per la trovata dei capelli attaccati al tettuccio della macchina per non far addormentare Yvan durante il viaggio di notte, per lo stranissimo incontro con Alain Delon, il nudo campeggiatore, che fa tutto, ma veramente tutto senza indumenti e il suo compagno stucchevole e languido. E chi di noi non ha mai incontrato il parcheggiatore abusivo, più tossico che ci sia? Yvan camminerà sulle sue tombe, l’ultima scavata con le sue stesse mani, come gli aveva predetto un vecchio meccanico veggente, e così salverà la sua vita, tornerà nella sua casa, aspetterà un altro piccolo ladro. Se la scelta di impersonare Yvan è caduta inevitabilmente sul regista e sceneggiatore del film, perché l’idea è nata da un avvenimento simile accaduto allo stesso Bouli Lanners, la scelta dell’attore Fabrice Adde per impersonare Elie è nata sicuramente dal suo sguardo, dalla sua capacità di intenerire ma anche di lasciarti sempre in dubbio sulla sua onestà etica. E’ stata una scelta tecnica ed emotiva; egli doveva essere un personaggio ambiguo, speculare rispetto alla solidità del protagonista, fragile ed irresponsabile. Così come tecnica è stata la resa della fotografia, con la quale creare una luce nuova e vitale per un paese in continua trasformazione, diviso nella molteplicità di etnie e realtà sociali. Così come la colonna sonora affidata a Renaud Mayeur e An Pierlé e Koen Gise traduce la pietrificante bellezza del paesaggio di un’immobilità cangiante e le canzoni dei The Milkshakes e di Jesse Sykes, di cui il regista ha comprato i diritti, riportano tutta l’opera ad un livello d’intimità e calore che solo un ricordo privato può regalare.
Articolo a cura di Luca Lupo