Si è aperta la 65. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Questa edizione è dedicata a Youssef Chahine. In ricordo del grande cineasta, sarà proiettato in Sala Grande – domenica 31 agosto a mezzanotte – il suo capolavoro Bab el hadid (Cairo Station, 1958), interpretato da Chahine stesso.
“Amava lo studio-system cairota, ma ha scelto di far ripartire il cinema del mondo arabo, portandolo in un’altra direzione e prendendo su di sé tutti i rischi – passando persino dall’altra parte della macchina da presa in uno dei suoi film-faro, Bab el-hadid (1958), per interpretare un personaggio di diseredato irriconciliabile (e maniaco sessuale). Ha realizzato il primo cinemascope a colori del continente africano e del mondo arabo, Salah ed-Din el-Nasr (1963), e continuato ad affermare una propria cifra stilistica in ciascuna delle sue opere più spettacolari, come se superproduzioni e coproduzioni non potessero mai essergli d’impaccio. Quando è iniziata la sua storia d’amore con il musical (amava Ginger e Fred quanto Asmahan e Oum Khalthoum), subito per lui ha danzato la sublime Hind Rostom, cantato l’immenso Farid el-Atrache (e poi Fayrouz, Magda el-Rumy…).
Ad altre star della canzone (Laila Mourad, Dalida) ha riservato invece ruoli esclusivamente drammatici; lavorando allo stesso modo, con continui slittamenti e salti da un genere cinematografico a un filone, dai film delle “pratiche basse” a quelli “alti”, ha potuto modellare o rimodellare l’immagine di divi e divine del cinema egiziano (la “scoperta” di Omar Sharif e Ahmed Zaki; la consacrazione di Yousra e Leila Elwi). Grazie ai suoi sempre straordinari attori, ha dato vita vera sullo schermo al piccolo popolo del Cairo, ai contadini dell’Alto Egitto, fatto rinascere reinterpretandoli Cleopatra e Averroè. Ha creduto in Nasser e nella via pan-araba al socialismo, per poi riaggiustare e precisare il tiro nei film “critici”, dagli anni Settanta in poi. Rischiando così più volte di finire in prigione, perché i suoi film dicevano la verità. “Anche la vita privata non è inviolabile,” diceva, “a partire dalla mia!”: tra verità e sogno del cinema si è allora progressivamente distesa una straordinaria cine-autobiografia – dichiarata (da Iskandereiya leh, 1976 agli altri film della sua “tetralogia”, sino al 2004) o meno (la confessione di Skoot hansawwar, 2001). Per gli ultimi trent’anni o poco meno, ha reagito alla malattia, all’aver sfiorato in almeno due occasioni la morte, girando ogni nuovo film come se fosse l’ultimo, come se non avesse più tempo da perdere. È stato uno dei grandi del cinema. Si chiamava Youssef Chahine. Lo abbiamo abbracciato lo scorso anno, quando ci ha portato a Venezia Heya fawda: non sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta, l’ultimo suo film. Senza di lui il cinema del ‘resto del mondo’ è già più povero. A lui è dedicata la 65. Mostra”.
Fonte: La Biennale