Pasquale Falcone è un finissimo umorista. Lo aveva già dimostrato nel suo precedente “Lista di provocazione, San Gennaro aiutaci tu“, così come in “Tutti gli uomini del deficiente“. Il punto però non è questo.
Falcone è prima di tutto un uomo di cinema con gli occhi aperti e la voglia di restare sintonizzato sulle frequenze dei giovani d’oggi.
L’umorismo non c’entra più di tanto, parliamo più che altro della voglia di catturare lo sfuggente, l’incasellabile, quel senso di precarietà cucito addosso agli adolescenti che si affacciano alla vita.
“Io non ci casco“, prima d’essere un modello di leggerezza e soavità, è una meravigliosa storia di vita.
In primis quella che ha scandito il periodo, piuttosto lungo, passato prima delle riprese. Falcone ce lo aveva già in testa il film, ma non gli bastava. Perché voleva che quella sua idea di gioventù, di zone d’ombra e di vita venisse passata al vaglio dai diretti interessati. Voleva che il suo film diventasse il film dei giovani. Non solo protagonisti, non solo comparse, ma spiriti guida dell’opera, sceneggiatori invisibili, uomini e donne con la macchina da presa in braccio e tanta voglia di raccontare qualche brandello della loro quotidianità.
Il film sarebbe dovuto essere un elettrizzante work in progress abitato dalla disarmante sincerità di chi vuole raccontarsi senza filtro.